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La Chimera: l’ambivalenza dell’essere

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“… Era il mostro di origine divina,
leone la testa, il petto capra, e drago
la coda; e dalla bocca orrende vampe
vomitava di foco: e nondimeno,
col favor degli Dei, l’eroe la spense…”
(Iliade, VI, 180-184, trad. V. Monti)

Gustave Moreau, La Chimera, 1867

Gustave Moreau, La Chimera, 1867

Essere mitologico composto dall’incrocio di specie differenti, desiderio irrealizzabile, la Chimera è un mostro e un’utopia: sogno ed incubo nello stesso tempo. La chimera è dunque un’illusione, un’illusione nella misura in cui la nostra cultura la considera come simbolo dell’impossibile.

Creatura orribile con corpo di capra, coda di serpente e testa di leone, o, secondo altre descrizioni, con testa di leone, una testa di capra sulla schiena e coda di serpente, la Chimera aveva origini divine, in quanto figlia di Echidna e di Tifone. Dalla sua gola uscivano fiamme e con il suo alito era in grado di seccare la vita vegetale. Il re di Licia, Iobate, affidò a Bellerofonte il compito di ucciderla; impresa questa giudicata assai ardua ma che l’eroe, con l’aiuto del cavallo alato Pegaso ed il favore degli dei, riuscì a portare a termine.

Pieter Paul Rubens, Bellerofonte abbatte la Chimera, 1635

Pieter Paul Rubens, Bellerofonte abbatte la Chimera, 1635

Omero, nell’Iliade, narra di questo mito che ritroviamo anche nell’opera di Virgilio, Esiodo, Platone e Fedro. Le fattezze divergono un po’, ma tutti sono concordi nella fisionomia composita del prodigio. La Chimera accoglie in se la natura di vari esseri, dando vita ad un orrido portento dalla forza straordinaria.

Somma di diversi vizi, la Chimera comprende la violenza del leone, la perfidia del serpente e la lussuria della capra: una trinità malefica e distorta che, nel corso del Medioevo, divenne effigie del maligno. Durante il Rinascimento la Chimera fu diffusamente riprodotta nelle rappresentazioni allegoriche e negli emblemi, estendendo il suo nome a tutte quelle fantastiche fiere frutto dell’accostamento di animali diversi. L’Umanesimo, con un rinnovato culto per l’antichità, fornì una nuova interpretazione alla Chimera: da incarnazione del male essa fu assunta come segno della facoltà oratoria.

Giambattista Tiepolo, Bellerofonte su Pegaso, dettaflio, 1747

Giambattista Tiepolo, Bellerofonte su Pegaso, dettaflio, 1747

Echidna e Tifone, i suoi genitori, erano anch’essi dei portenti: Echidna era per metà donna dall’incredibile bellezza e per metà serpente maculato, Tifone, figlio della Madre Terra e del Tartaro, era un essere gigantesco dall’ orribile testa asinina, per metà umano e per metà serpente. Dalla loro unione, oltre a Chimera, vennero alla luce Cerbero, cane gigante dalla tre teste, Ortro, cane dalle due teste e Idra di Lerna, serpente assai velenoso a nove teste: un bestiario che genera un senso di paura misto a stupore.
Esseri mostruosi, usciti dal Caos primordiale, che assieme ad Arpie, Gorgoni, Sfingi, Sirene, Centauri, Ippogrifi e altri simili ibridi si configurarono come immagine tipica del male: l’idea del terribile venne associata all’idea del brutto, del deforme, del non univoco, non avendo queste creature un’identità fisica definita ed un ruolo specifico nei regni della natura. Ecco che in tal senso l’eroe che sconfigge il mostro rappresenta il trionfo del bene ma anche, in un senso più ampio, il trionfo di una nuova mitologia fatta ad immagine e somiglianza dell’uomo: divinità dotate di una sola natura, opposte alla deformità degli ibridi, rifulgenti nella loro perfetta e compiuta bellezza.

Odilon Redon, Pegaso, 1900

Odilon Redon, Pegaso, 1900

Nel pensiero greco si fece pian piano strada l’idea che il Bello coincidesse con il Bene. La difformità della Chimera fu così interpretata come un’anomalia morale: ciò che è brutto è anche malvagio. La molteplicità della natura e dell’essere uomo, con il suo impasto di sublimità e peccato, fu per un certo tempo celata fino a che la tragedia sofoclea non ne diede nuova dignità. L’uomo, essere ibrido per eccellenza, fu così riconsiderato nella sua più vera ed autentica essenza: i mostri non possono essere allontanati, soprattutto se essi vivono in noi.
Come l’uomo così anche la Chimera è fonte di bene come di male, poiché ambivalenti sono gli stessi esseri di cui si compone. Il leone, belva sanguinaria ed emblema della violenza, è anche simbolo del sole benefico e della regalità del sovrano giusto. La stessa capra, se sotto le spoglie del maschio rappresenta l’eros maligno, nella raffigurazione mansueta è sinonimo di fecondità. Quanto al serpente, per tradizione velenoso ed infido, incarna anche la sapienza: dalle viscere della Madre Terra esso trae una grandissima saggezza.

Sofocle che nell’Antigone riconosceva che molte sono le cose che suscitano sgomento, ma nessuna più dell’uomo diede l’avvio ad una nuova visione della Chimera: non più essere estraneo ma contiguo all’uomo. Da creatura indecifrabile, la Chimera venne così ad identificarsi con l’enigma dell’uomo: la Chimera non è quella che vaga nei boschi ma la parte più oscura e misteriosa che ognuno cela dentro di sé. La nostra cultura è ricca di chimere; chimere pittoriche, cinematografiche, letterarie o filosofiche: archetipo di quella complessità che fa parte dell’essenza stessa dell’uomo.

Jacek Malczewski, L'artista e la Chimera, 1906

Jacek Malczewski, L’artista e la Chimera, 1906

Non so se tra rocce il tuo pallido
Viso m’apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera
(Dino Campana, La Chimera, 1913)



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